Negli anni Cinquanta, gli anni in cui Bruno Beltrami inizia a dipingere, Mantova è completamente esclusa anche dalle poche correnti artistiche che giungono in una sempre più periferica Italia. La sua formazione è quindi interamente improntata all’imitazione del padre, paesaggista, e di quel verismo mantovano che ancora oggi rappresenta la quasi totalità della pittura locale. Da questi modelli egli attinge il gusto per i colori tenui e per l’assenza di contrasti cromatici, che restano una peculiarità di tutta la sua produzione.
Negli anni Sessanta e Settanta la frequentazione di nuove cerchie, anche artistiche, determina l’apertura a temi a sfondo sociale e relazionale, quali la solitudine e la difficoltà di comunicare derivante dalla costante adozione di cliché, un po’ come maschere pirandelliane.
Non vi è ancora però una ricerca sistematica, quanto piuttosto uno sperimentare forme e approcci.
Negli Ottanta, e fino a tutti i Novanta, irrompe il tema del degrado ambientale e della ‘rottura’ tra uomo e natura. Si codificano le forme e i colori. La figura umana è sempre più essenziale: spariscono tutte le connotazioni individuali e rimangono solo le caratteristiche universali, come avessimo di fronte dei manichini. Spesso filiformi, quasi a voler rendere la debolezza dell’uomo in seguito all’interruzione dell’armonia con la natura. La tavolozza si popola di varietà di rosa e azzurro: è il confronto tra tonalità calde e fredde, che sfumano le une nelle altre, a rendere i contrasti e gli stridii della rottura.
Con gli anni Zero del nuovo secolo la pittura di Beltrami si focalizza sempre più su singoli aspetti che non su temi generali. Sono aspetti grotteschi, se non addirittura allucinanti, comunque sempre riconducibili alle “critiche” dall’artista nei decenni precedenti. Ecco allora l’assurdità delle telecomunicazioni che, anziché potenziarle, si sostituiscono come un surrogato alla comunicazione tra persone; o l’incubo delle code in autostrada durante gli esodi vacanzieri; o ancora l’angoscia dei giovani di fronte alle incertezze di un futuro che pare avere di buono solo il fatto di non essere ancora arrivato; o ancora la condanna dell’ipocrisia di certo animalismo di moda. Fino al punto di non ritorno che di roseo ha solo qualche pennellata sulla tela.
Sul finire del decennio Beltrami riscopre il paesaggio, soprattutto quello “liquido” di Mantova. Non si tratta di un semplice ritorno alle origini, ma più di una rielaborazione matura, che sembra giungere dopo un lungo percorso artistico che ha battuto più strade. I piccoli scorci di natura di queste ultime opere paiono infatti dire di un paesaggio svincolatosi dall'uomo, di un paesaggio quale si potrebbe presentare se l'uomo smettesse di aggredirlo indiscriminatamente. Da un punto di vista tecnico, alle tinte pastello sulle sfumature del rosa e dell'azzurro degli ultimi vent'anni, si sono affiancate, e talvolta sostituite, le sfumature dei grigi del cielo e dei laghi mantovani, i gialli delle erbe lacustr, i verdi dei pioppeti e i rossi dell'autunno. La tavolozza ne risulta sorprendentemente e gradevolmente arricchita, aumentando la delicatezza dell'insieme.